La vicepreside del liceo Socrate di Roma avrebbe chiesto alle alunne di non indossare abiti eccessivamente provocanti. La motivazione, così pare, sarebbe stata sunteggiata dalla frase: “ai professori cade l’occhio”. Alla gentile richiesta è seguita una sdegnata protesta delle alunne. Molte di loro si sono presentate a scuola in minigonna. «Non è colpa nostra se cade l’occhio»; «Io mi vesto come voglio»; «Stop alla violenza di genere», si legge sui cartelli appesi nei corridoi. Prevedibile come l’occhiata dell’anziano bavoso sotto la gonnellina di una ragazzina, è arrivato il Caffé di Massimo Gramellini a favore del laisser passer: «Bendate i professori» il titolo del suo pezzo, così deliziosamente dalla parte delle signorine e apparentemente contro il maschio maniaco. Nel frattempo, a Parigi, le attiviste del movimento femminista Femen erano entrate al Musée d’Orsay a seno nudo con i cartelli «L’oscenità è nei vostri occhi», «Questo non è osceno», dopo che a una visitatrice era stato offerto un blazer per coprire una scollatura piuttosto impudica.

 

Affezionatissimi, questo tema è solo apparentemente di retroguardia rispetto alla farsa integrale in cui siamo costretti a esistere. E come sempre, se con le poche intelligenze in circolazione si può usare il logos – insinuando un poco di logica nelle relazioni umane – con chi ci governa, il logos è vano: serve piuttosto operare in senso antifrastico. D’accordo, ragazze, non è colpa vostra se cade l’occhio; mi sarà dunque concesso passeggiare per la Triennale di Milano con il pene fra la mano… giusto? E che dire a un’agente della sicurezza che mi fermasse se non: questo non è osceno, signora agente. L’oscenità è nei suoi occhi! E ancora, se fossi un insegnante del liceo Socrate, domani mi presenterei con placidità in aula, slaccerei i bottoni dei calzoni e farei cadere i testicoli sulla cattedra, per poi iniziare tranquillamente la lezione. Nel caso qualche fanciulla strillasse puntando il dito, reagire con un serafico: non è colpa mia se vi cade l’occhio, ragazze. Qualcuno avrebbe qualcosa da ridire? Sarei felice di ascoltarlo. Coraggio!

 

Fra di noi, teste pensanti, l’approccio è doverosamente differente. Chiedo a voi come chiedo a me stesso: se fossi un pervertito o anche soltanto un lubrico guardone, che posizione prenderei sulla questione dress code? Mi batterei per un maggior decoro? Chiederei a gran voce alle ragazzine di coprirsi? Suggerirei una divisa, magari uguale per ragazzi e ragazze, così da rispettare la parità di genere? O piuttosto mi fingerei dalla parte delle donne, difendendo il loro sacrosanto diritto a rizzare cazzi? E se fossi padre di una ragazza del liceo, che cosa le insegnerei a proposito del contegno, del garbo, della finezza femminili? Che cosa mi aspetterei da parte dell’istituzione scolastica? Qualcosa di ciò che si respira alla Macnamara’s House della St. Edwards School di Oxford o piuttosto le indagini della Azzolina nei confronti della vicepreside del Socrate?

 

Come ricorderete, proprio per questo termine, “rizzacazzi”, mi arrivò il primo richiamo da parte del Giornale.it, ridicola avvisaglia di ciò che sarebbe accaduto in seguito. Quella parola maleodorava discriminazione. «Offende le donne», mi si disse. «Abbiamo ricevuto telefonate di protesta; non puoi pubblicare queste esternazioni sessiste senza la nostra approvazione». Ai tempi mi difesi con la maieutica, capendo in fretta quanto fosse senza speranza. Una ragazza che tirasse fuori le puppe in classe, che si strizzasse in micro-short inguinali, che si infilasse in bocca e ciucciasse ogni oggetto vagamente assimilabile a un fallo durante le lezioni, mostrerebbe maggiore o minore emancipazione dall’immaginario maschile? Far venire il pistolino duro a un compagno di classe o a un professore – in maniera programmatica e con impegno quotidiano o magari distrattamente, per mera degenerazione dei costumi – aiuta la causa rosa? Le oche che stringono in mano questo vizzo potere come fosse un bastone di tuono, non capiscono che la loro azione, lungi dall’emanciparle, riafferma la centralità del maschio e dei suoi desideri. Credono di dominarlo, di prendersi una rivincita, ma subliminalmente lo compiacciono ancora, e si collocano – questa volta per libera scelta – nel cortile della sua immaginazione come ordinarie cocotte.

 

 

Una donna che volesse affermare la propria indipendenza da gusti e capricci virili, nulla mostrerebbe al maschio di passaggio, al segaiolo compagno di banco come al bavoso professore o all’untuoso Gramellini, nulla concederebbe; ma ne farebbe dono solo all’uomo o solo agli uomini degni di lei. Così scrissi allora; così scrivo oggi, senza più bisogno di approvazione.