Tanti anni fa, sulle pagine del Tempo di Roma, scrissi una rubrichetta satirica sulla democrazia vista da sinistra. «Ci avete addottorato per lustri sulla sovranità popolare, sulle benemerenze della partecipazione di massa, sul suffragio universale» – pungolavo – «e oggi che il popolo sovrano acclama in massa Silvio Berlusconi, scendete in piazza a fare i girotondi?! Parlate di popolo bue, di dittatura della maggioranza?!». La puerile risposta ufficiale dell’imbecillighenzia di allora fu che Berlusconi operava illegittimamente con le proprie televisioni, con la violenza persuasiva del danaro e della teatralità – la parola “populista” non era ancora up to date – manipolando le convinzioni degli animi più semplici verso l’illusione del successo facile. Oggi lo schema è lo stesso e unisce l’Internazionale Progressista a livello planetario: contro Donald Trump. In Italia, invece, il nemico della democrazia non è più il moderato Berlusconi, ma la “destra estrema”, farsesca locuzione per descrivere Salvini e la Meloni. Lega e Fratelli d’Italia non hanno alcuna piattaforma mediatica e quindi l’accusa deve cambiare. Si parla perciò di sovranismo e di fascismo. Che allettano il popolo bue in cerca di una guida. Perché i deboli hanno bisogno dell’uomo forte. Eminenze pettinate come Corrado Augias e Gianrico Carofiglio lo asseverano quotidianamente, dolendosi con benevolenza e un pizzico di contrarietà della semplicità del volgo. La sovranità popolare – magnificata quando a vincere era la sinistra – diviene “deriva sovranista” o “recrudescenza fascista” se si vince a destra. E in piazza, al posto dei Girotondini di Nanni Moretti, siamo precipitati nel baratro intellettuale delle Sardine che non abboccano di Mattia Santori.
La faziosità più grossolana travestita da impegno civico e saggistica psicoevolutiva non mi impressionava allora e non mi impressiona adesso. Ciò che trovo degno di attenzione è invece la caricatura democratica disegnata dai gerarchi del regime plutocratico – ormai evidente a chiunque non soffra di enuresi in età adulta – ovvero: l’oligarchia finanziaria trionfante può dar voce alla minoranza asina e rumorosa contro la maggioranza guardinga e silenziosa attraverso l’industria culturale sua garzona, e, grazie agli organi sovranazionali non eletti dai cittadini, usufruire di esecutivi impermeabili alle insofferenza elettorali. Invertendo così la percezione di volontà popolare e di governance legittima. Ogni giorno ne abbiamo enfatica conferma. Viviamo nella cattiva totalità del dominio venduta come pluralismo multiculturale e multietnico. Un pluralismo che annichilisce la differenza autentica perché produce le differenze in catena di montaggio, stampando un ready to wear uguale per tutti. Che si indossino delle brache o dei valori, che si usino degli elettrodomestici o dei diritti. Ma a modellare il perfetto fashion victim politico è la forza divulgativa dei nuovi mezzi di comunicazione. Con i social media non serve più scendere in piazza fra le ascelle pezzate e poco chic dei manifestanti per esibire la propria virtù più à la page: basta un poster virtuale. Per esibire il valore di marca mentre si fa lo struscio multimediale. Come abbiamo avuto modo di segnalare in passato, le risoluzioni morali, che si calcificano in convinzioni etiche e quindi in posizioni politiche, nella stragrande maggioranza degli individui non sono il frutto di un’indagine interiore, di un sofferto setaccio critico, ma vengono scelte esattamente come si sceglie un oggetto di status e soggiacciono alle stesse logiche dell’acquisto di un bene materiale che si ritiene collocante. L’etica non si consolida dall’habitus aristotelico, come comportamento morale sedimentato e riaffermato, ma viene infilata come un abito prêt-à-porter, già confezionato da altri. Proprio come… indossando una borsetta di Vuitton o un gioielletto Tiffany quel tipo di donna si sente immantinente charmant, così indossando un’idea trendy, la stessa che sfoggiano le celebrities, ingaggia l’appartenenza che desidera ostentare. A nulla serve macerarsi nell’incredulità cercando di far rinsavire chi vuole a tutti i costi acquistare a caro prezzo una volgare patacca griffata. Lei la vorrà lo stesso, ostinatamente, contro ogni obiezione, perché non è interessata in alcun modo al contenuto, alla qualità intrinseca dell’oggetto, bensì al dispaccio simbolico. Come la moda si è impadronita dei “valori d’avanguardia” per farsi pubblicità, così i valori sono diventati una moda. E tutto è finalmente merce.
La cattiva totalità di oggi ha propagato grazie a questi magneti agglomeranti quello che chiamo il quislingismo felice. Se in epoca nazista la sottomissione all’invasore era consciamente ispirata dalla paura, oggi è accompagnata dal servilismo dell’autopromozione, intimamente terrorizzato, ma esteriormente adorante. Quando vedo mascherine che camminano tutte tronfie della loro civiltà, bandiere dell’Europa esposte ai balconi orgogliose di cosmopolitismo, t-shirt fatte a macchina da prigionieri del globale che raffigurano guerriglieri antisistema indossate da qualche rivoluzionario dell’aperitivo, un tizio che passa in monopattino fra mostri di lamiera motorizzata giulivo come un tacchino induttivista, pacifisti, buonisti, attivisti dell’ecosostenibilità che brutalizzano e saccheggiano come Unni, Sala in parata fra i transessuali, un ragazzo di Los Angeles figlio di madre messicana e padre haitiano che intona l’inno di Mameli senza conoscerlo solo per far vedere che in Italia e da Maria De Filippi la vita dei neri conta… sento il grido disperato dell’umanità alienata. Il vero capolavoro dell’irrazionalità strumentale che ci tiranneggia è nella sua regressione mimetica a mito. Ciò che è irrazionale, oggi, è reale. Non si discute, perché è l’unica realtà possibile. E chi la nega è un negazionista. Chi ne intercetta l’imbecillità sistematica un complottista. Chi ne sottolinea le regressioni un anterogrado. Chi si oppone, chi recalcitra, un boomer.
Gli internazional-progressisti di oggi sono come i collaborazionisti di ieri. L’avanguardia leopoldina o sardina di oggi, come l’avanguardia giovanile fascista, ma vestita peggio e con un testicolo in meno. Vi è però una differenza fondante e ironica: il fascista sapeva di essere un soldato fedele al suo posto, alla sua consegna. Questi liberal antifa sono soldatini caricati a molla che si credono liberi, che si reputano emancipati, che si immaginano individui. Valgono per loro le penetranti parole di Leonardo Sciascia: «Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo mentre la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore gli piace, alle proprie corna».