Il professor Alberto Zangrillo sostiene che il virus è clinicamente morto. E lo dice perché si sente «portavoce di una Università, Vita-Salute San Raffaele, che è al primo posto nel ranking nazionale per qualità della scienza e della ricerca prodotta». L’Oms e la professoressa Viola rispondono con piglio piccato: «Anche noi siamo scienziati, Zangrillo, e non ci risulta». La Scienza, insomma, non è d’accordo con la Scienza, un po’ come Burrioni è spesso in disaccordo con Burrioni. Personalmente, sono sempre dell’idea che per riconoscere chi è vaccinato contro il pensiero basta registrare frasi come: «Ce lo dice la Scienza; Ce lo dice l’Europa; Ce lo dicono i mercati; Black lives matter; Milano non si ferma; Io resto a casa; Abbraccia un cinese». Chi non ama pensare, se ne serve felicemente.
Con una nota di colore, soffermiamoci un attimo sul motto più popolare in queste ore: Black lives matter. La fine di George Floyd – l’uomo ucciso durante un fermo da alcuni agenti della polizia di Minneapolis – fa ovviamente rabbrividire. E il pensiero di ciò che succederà per le strade degli Stati Uniti, ancor di più. Io rimango precipuamente allarmato, tuttavia, dalla violenza conformista dell’universale buonoide e dall’uso funesto che la propaganda fa delle parole. Il ridurre tutto a slogan che affermano il contrario di ciò che credono di affermare e giocano contro la causa che vorrebbero difendere. “Black lives matter” è un frizzo che introietta la discriminazione razziale come status quo, sottolineando la differenza che pensa di negare. A chi verrebbe in mente di scrivere, per esempio, “La vita dei cani conta”? A nessuno; perché è implicito, sottinteso, pacifico, sacrosanto. Per i neri no. Lo trovo imbarazzante; mortificante. E se mi si obietta: «Pensi, bisogna sottolinearlo proprio perché per qualcuno la vita dei neri non conta nulla!»… rispondo che è l’opinione di quel qualcuno a dover essere ridotta a nulla, al silenzio, all’oblio, e invece, per contrasto, le si garantisce esistenza nello spettro del reale; da unthinkable, la si rende concepibile. Ma chi non ama pensare vuole solo ostentare l’aforisma trendy, la parola d’ordine del moralmente à la page, la presa di posizione orgogliosamente engagé, come indosserebbe una patacca griffata o come esibirebbe il ferro nuovo al bar dello sport. In poche ore, la mia pagina Instagram è stata inondata di cartelli solidali: registi, attrici, comedian (addirittura Jimmy fuckin’ Carr!) e, a cascata, sciacquine e cicisbei della porta accanto. Così, in tutto questo sfoggio di pagine black, al pensiero manca il respiro. Un buco nero che assorbe ogni riflessione in grado di indagare il vero busillis: la polizia statunitense è stolida e ostile perché costretta ad operare in un ambiente stolido e ostile. Io fui ammanettato e sbattuto faccia sul cofano per un’inversione a U con un Suzuki Samurai da un agente di colore. Avevo 24 anni. E neppure feci in tempo a segnalare di essere un mangia spaghetti. Fu razzismo nei miei confronti? Odio nei confronti di un fighetto bianco e sbarbato? Non voglio crederlo.
Tuttavia, vi sono casi in cui la fatica del concetto non è necessaria e il toboga ermeneutico un’autostrada verso la verità. Si legge su Repubblica: «Coronavirus, i documenti che inchiodano la Cina. Non c’è dubbio che Pechino abbia agito in cattiva fede: non solo per i ritardi nel comunicare l’evoluzione della epidemia, ma soprattutto per la questione del genoma, cioè della mappa genetica del virus. Gli scienziati cinesi, grazie anche all’esperienza acquisita con altre epidemie, a cominciare dalla Sars – erano ben attrezzati per un esame genetico dei virus, che era essenziale per individuarla ovunque si manifestasse e per combatterla. Il problema? Che la presenza del coronavirus a Wuhan fu mappata una prima volta il 27 dicembre 2019 da Vision Medicals, un centro privato cinese, e poi ancora da altri laboratori privati o pubblici, come il centro statale per le malattie infettive. Ma niente trapelò: tant’è vero che il 5 gennaio 2020, dopo la dichiarazione assolutoria del celebre virologo cinese Zhang Yongshen, l’Oms dichiarò che non c’erano rischi di una trasmissione uomo-uomo e quindi di misure restrittive per i viaggiatori». E ancora: «Secondo quanto riferisce Associated Press, alcuni documenti segreti svelerebbero tutta l’irritazione dell’Oms nei confronti di Pechino. In particolare, lo scorso gennaio, il governo cinese non si sarebbe dimostrato subito partecipativo nel condividere le informazioni su quanto stava accadendo nella provincia dello Hubei. In quei giorni il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus era volato in fretta e furia in Cina per incontrare, faccia a faccia, Xi Jinping, elogiandolo per la trasparenza nella gestione del Covid. Quei complimenti, affermano le prove su cui si basa l’indiscrezione dell’AP, facevano parte di un’operazione diplomatica per spronare il Dragone a collaborare di più. Non solo: sembrerebbe che i funzionari dell’Oms abbiano passato intere settimane a pretendere da Pechino informazioni utili per stoppare sul nascere la pandemia. Sempre in privato, gli uomini di Ghebreyesus si sarebbero più volte lamentati per i ritardi dimostrati dai cinesi; ritardi che avrebbero potuto cambiare in meglio la storia del contagio». E questo ce lo dice addirittura il Giornale. Che fu di Montanelli e… Gervaso.